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A proposito dell'Islâm

di Tariq Ramadan

Traduzione di Asmae Dachan

Lo sforzo su sé stessi

Sapere trovare un equilibrio tra ciò che è la situazione, quello che dovrebbe essere e ciò che noi siamo è certamente la battaglia più difficile e lodevole dell’essere umano: è questo che nella tradizione musulmana viene chiamato jihad.

L’uso dei termini giusti, e la conoscenza del loro significato, è molto importante; riporto qui, come esempio concreto, un episodio che mi è accaduto durante una conferenza: mentre facevo riferimento alla parola jihad, entrarono nella sala alcune persone che erano in ritardo; avevo già spiegato il vero significato della parola nella tradizione musulmana, prima del loro arrivo. Quando venne chiesta un’opinione ad una della persone arrivate in ritardo, disse che fin quando i musulmani avessero parlato di jihad, di “guerra santa”, i non musulmani non avrebbero potuto che essere  in conflitto con loro. Quella persona non aveva sentito tutta la spiegazione del termine, che era stata fatta in sua assenza, ovvero di jihad inteso come sforzo. Ciò dimostra che non si può pretendere di aver capito un termine, se non si approfondiscono tutte le sue definizioni, le sue sfumature, ed anche la sua stessa storia.

Il jihad è anzitutto lo sforzo spirituale che ci eleva a una maggiore umanità davanti a Dio.

 In lingua araba jihad an-nafs significa lo sforzo che ogni uomo deve compiere su se stesso per essere degno della sua umanità, lottando contro la propria violenza, la collera, la cupidigia, e l’egoismo e l’egoismo. È importante sottolineare la grande distanza di ciò dalla  traduzione comune di “guerra santa”. È sbagliato prendere un concetto così come un determinato momento della storia ce l’ha consegnato, ignorando l’epoca ed il contesto. Le Crociate erano considerate guerre sante, da una parte e dall’altra. I musulmani, che erano stati aggrediti, usavano allora il termine jihad, che significava sforzarsi a resistere di fronte a tali  aggressioni e assedi. Così si è finiti per tradurre, in modo precipitoso e superficiale, la parola jihad con “guerra santa”, facendo una trasposizione del senso delle crociate nell’orizzonte cristiano. Se la parola jihad può voler dire “guerra” (nel senso di guerra di resistenza), essa ha però un significato molto più importante, più ampio e pregnante: rappresenta verbalmente il combattimento che si attua nel nostro essere, tra il soffio che ci richiama a Dio e tutto ciò che vorrebbe farci dimenticare il Creatore. E’ questo sforzo spirituale che ci fa accedere ad un livello di umanità superiore davanti a Dio.

 Da questo concetto di sforzo si sviluppano due punti importanti: il primo è che non si può ignorare il concetto di rigore che c’è  presso i musulmani. Il rigore del cuore e quello della coscienza sono le due dimensioni fondamentali della vita quotidiana dei musulmani in generale. Questo richiamo al rigore si traduce in un senso profondo di responsabilità e in un impegno costante. Bisogna saper vivere nel mondo, nella società, come attori, e non come spettatori. Il musulmano è responsabile di un’etica da rispettare, di un messaggio da trasmettere, egli ha un dovere, una missione, un impegno attivo nella società in cui vive,  deve sapere farsi carico delle esigenze della sua comunità religiosa, e più in generale, della comunità di tutti gli esseri umani.

Il secondo punto esige un cammino inverso, perché si tratta di consacrare il proprio essere alla vita interiore ed all’autodisciplina. L’Islâm, contrariamente ad alcune culture che non accettano un simile prospettiva, lo rivendica, come nella tradizione induista o buddista, o quella dello yoga, e in tutte le spiritualità in cui il lavoro sul proprio essere e sul proprio cuore sono alla base di ogni riforma.

 Nell’Islâm questa disciplina si attua in una pratica, che è quella del ricordo e da un rigore, disciplina fatta di preghiera, cinque volte al giorno e di digiuno, di elemosina obbligatoria (zakat) e del pellegrinaggio.

Ognuno di questi pilastri[1] esige un’attenzione, un controllo del proprio corpo, del proprio denaro, del proprio tempo, e prima ancora del proprio essere. Ciò che l’uomo fa del suo essere, rivela il suo modo di essere davanti a Dio.


[1] I cinque pilastri dell’islam.

La shahada: testimonianza di fede: “ashhadu an la ilaha illa Allah ,wa ashhadu anna Muhammadan rasulul Llah” ( testimonio che non c’è alcun Dio all’infuori di Allah e che Muhammad è Suo inviato). Quando vi si aderisce con sincerità ne deriva la sottomissione (Islâm) a Dio. È il fondamento, l’asse e la determinazione dell’ “essere musulmano”. È il primo pilastro dell’Islâm.

La salat, la preghiera, cinque volte al giorno: all’alba, (salat al subh), prima dell’apparizione del sole; a mezzogiorno, dopo lo zenith (salat adh dhor); a metà pomeriggio (salat al asr); al tramonto del sole (salat al magrib) dopo la scomparsa del sole all’orizzonte; e durante la prima parte della notte (salat al isha). È il secondo pilastro.

 La zakat, l’imposta sociale purificatrice, è un prelievo annuale sui beni che il credente possiede (oro, argento, bestiame, prodotti agricoli, merce commerciale) a partire da un minimo stabilito. Viene distribuita ad otto categorie di persone specificate nel Corano, nella Sura IX,60. È il terzo pilastro.

 Il sawm, digiuno, consiste nell’astensione dal bere, dal mangiare e dall’avere rapporti sessuali durante il giorno, dall’alba al tramonto. Si svolge durante il mese di Ramadan, nono mese del calendario lunare islamico. E’ il quarto pilastro.

 Il hajj, il pellegrinaggio maggiore, si compie alla Mecca (oggi in Arabia Saudita) almeno una volta nella vita, in un periodo preciso dell’anno, se si hanno le condizioni fisiche ed economiche per farlo. È il quinto pilastro.

     

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